RESISTENZE NEL COLLOQUIO TERAPEUTICO
Quasi sempre con le resistenze nel colloquio il paziente esprime resistenze più o meno forti al cambiamento, a volte resistenze evidentissime anche solo al fatto di trovarsi in quel momento lì davanti a noi. Spesso sono evidenti attraverso le parole che usa o invece attraverso quelle che non usa (resta sul generico spontaneamente e anche ai nostri tentativi di approfondimento, alterna lunghi silenzi e latenze nelle risposte, parla in modo concitato e continuo senza soffermarsi su qualche punto in particolare, ci scruta quasi con diffidenza in atteggiamento passivo e timoroso della prossima domanda, cerca di interessarsi in modo ostentatamente cordiale e quasi seduttivo verso di noi piuttosto che parlare di sè, ecc).
Altre volte le resistenze nel colloquio sono evidenti anche e soprattutto dal linguaggio non verbale, quello del corpo (postura rigida, evitamento dello sguardo, atteggiamento difensivo con braccia sempre incrociate, mani che si muovono in continuazione, ecc).
Queste resistenze nel colloquio sono più evidenti nel primo colloquio, ma si possono rilevare anche in colloqui successivi a seconda delle dinamiche che si stanno instaurando nella relazione terapeutica. A volte queste resistenze ci fanno sorridere interiormente (meglio non sorridere troppo in faccia al paziente, potrebbe interpretarlo come presa in giro o atteggiamento di superiorità e supponenza), altre volte ci evocano una reazione di fastidio o noia (evidentemente correlata a qualche nostro vissuto personale) di cui dobbiamo essere ben consapevoli per poterla gestire e utilizzare in modo adeguato.
Dobbiamo sempre tenere a mente che le resistenze nel colloquio al cambiamento sono un fattore estremamente comune e normale, e che doverle affrontare e gestire è una delle parti integranti del nostro lavoro, sempre. Se una persona fosse in grado di attuare dei cambiamenti da sola e senza resistenze lo avrebbe già fatto, senza bisogno di rivolgersi a noi. Invece se è qui con noi è perchè cambiare quasi sempre spaventa, a volte senza ancora una piena consapevolezza, perchè vuol dire dovere rinunciare a qualcosa di finora certo per noi (magari sgradevole, ma certo) per spostarsi su qualcosa di sconosciuto e potenzialmente rischioso.
Cambiare fa paura, il prezzo da pagare fa paura, e che scattino delle resistenze è il minimo che possa succedere, e in un certo senso è anche sano che ci siano.
Di fronte a un potenziale rischio, ci viene d’istinto di difenderci. Le resistenze nel colloquio, nel primo e nei successivi, vanno quindi inizialmente accolte e accettate, con la maggior empatia possibile, in quanto elemento prezioso di autoprotezione da parte del paziente. Attaccare subito le resistenze nel colloquio terapeutico comporta che il paziente si irrigidisca difensivamente e inevitabilmente le fortifichi ancora di più. Il successivo svilupparsi di una buona relazione terapeutica di ascolto e di fiducia consentirà da una parte al paziente di esporre sempre più le proprie paure (che stanno alla base delle resistenze) e dall’altra al terapeuta, nel caso il livello di difese nel colloquio dovesse restare alto, di iniziare a “scioglierle” gradualmente affrontando le resistenze nel colloquio direttamente con un paziente sì difeso ma anche un po’ più a suo agio nella relazione di quanto non lo fosse nel primo colloquio.
RESISTENZE NEL COLLOQUIO TERAPEUTICO: UN CASO CLINICO
Certo, a volte l’aspetto delle difese in un primo colloquio può risultare sconcertante. Poche settimane fa mi si è presentata una signora che fin dalle prime battute, anzichè esporre il suo stato e le sue difficoltà, ha iniziato a domandarmi con tono critico se attraverso la porta della sala d’attesa si sentiva parlare, se le tende alle finestre oscuravano abbastanza, perchè non avevo il lettino ma solo una poltrona reclinabile, e soprattutto se praticavo “l’analisi esperienziale delle forze vitali”, che lei sapeva essere in modo assoluto la cura giusta per i suoi disturbi (peraltro nemmeno accennati!). Era assolutamente autocentrata, non minimamente interessata a darmi informazioni su di sè nè a chiederne a me su come lavorassi. E ovviamente mi ha guardato con un misto di riprovazione e disprezzo nel sentire che non conoscevo la sua tecnica salvifica. Bene, avrei potuto irritarmi e leggerla come l’ennesima persona che va da uno specialista sapendo “lei” ciò che le serve e usando il terapeuta come una lavatrice a gettone, mette lei dentro il gettone e il terapeuta-macchina esegue il programma che lei ha scelto. Invece ho cercato direttamente il suo sguardo e le ho detto che immaginavo fosse estremamente difficile per lei fidarsi, e quindi raccontarsi, e che potevo supporre che questa diffidenza derivasse da esperienze precedenti con altri colleghi. Beh, con un tono molto più autentico ha ammesso che per lei è difficilissimo, che ora non ci riesce proprio, che io ero stato bravo a capirlo, ma che ora si sentiva di potere affrontare solo quel tipo di terapia (che ho scoperto poi essere una delle tante declinazioni dell’approccio psicoanalitico). Si è conclusa lì, nel senso che poi non ha fissato un altro appuntamento e da allora non ne ho più notizie, ma credo di averle dato il massimo di ciò che potevo darle in quel momento e in quella situazione, cioè il potere fare esperienza dell’accettazione e accoglimento delle sue resistenze nel colloquio mostrandogliele però come tali. Chissà, forse un semino è stato messo e potrà germogliare in futuro…
Che cosa può fare un paziente quando si rende conto di avere resistenze inconsapevoli che nemmeno il terapeuta sa come superare? Cosa fare se cambiare terapeuta, orientamento, fare autoanalisi , registrazione dei pensieri, eseguire compiti e leggere tutto il leggibile a tal riguardo non funziona?